L'infanzia è un momento così delicato fatto anche di perplessità, inciampi, rallentamenti, blocchi, salti. La crescita non è un processo lineare, facile e prevedibile. Non necessariamente una complicazione diventa “disturbo”. Ogni bambino ha i propri tempi e modi di crescere, di esprimersi, di affermarsi. Esistono disagi temporanei o crisi evolutive del tutto normali. Una lite tra bambini non è sempre bullismo, l'ansia per l'inizio della scuola non è patologica, la vivacità non è iperattività, problemi di comportamento non sono per forza sindromi.
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Quello che consideriamo disagio dipende inoltre da come pensiamo i piccoli. Spesso il bambino è rappresentato attraverso modelli alterati che non aiutano a capire chi è davvero. Modelli che lo vogliono grande in fretta, indipendente, adeguato, responsabile, competente, coscienzioso, ben adattato ai bisogni e alle richieste del mondo sempre più caotico dei grandi. Con questa griglia di riferimento è facile individuare problemi. Questo per dire che se in alcuni casi i genitori non sanno riconoscere o nascondono inconsciamente i segnali di disagio dei figli è vero anche che oggi si tende a etichettare, diagnosticare, psichiatrizzare con facilità, a far diventare psicopatologia normali sfide evolutive, ad interpretare la differenza come problema, penalizzando chi, per diversi motivi, non riesce ad star dietro agli standard.
Le richieste, le aspettative devono essere modulate sulle capacità individuali, sulle singole necessità che cambiano continuamente.
Quando intervenire
Certo, ci sono casi da approfondire anche se non esistono misure esatte alle quali riferirsi, quando il divario tra ciò che ci si attende a un certo momento dello sviluppo e come il bambino si comporta è veramente molto ampio, quando ci sembra che qualcosa non vada a livello emotivo o cognitivo ma soprattutto quando il malessere è così marcato da interferire nella vita in modo significativo e per troppo tempo, allora sì, è opportuno intervenire.
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Il disagio a volte compare in modo palese, altre in modo sottile. I più piccoli lo esprimono soprattutto attraverso il corpo, a volte compaiono capricci ingestibili, aggressività o oppositività, oppure reazioni eccessive di rabbia, pianto, instabilità, difficoltà con il sonno, mal di pancia. Nei bambini più grandi possono manifestarsi problemi con l'alimentazione, ritiro sociale, fatica a concentrarsi, ansia, fobie. Il quadro può essere ricco e variegato, sicuramente “creativo”. Secondo il modello sistemico-relazionale il bambino che presenta un sintomo, un diagio, un problema è portavoce di un malessere familiare. Il sintomo è visto come una richiesta di aiuto, un modo in cui il piccolo fa capire che qualcosa lo fa stare male, lo “disturba”, il segno di un disagio che riguarda il sistema “disfunzionale” più ampio al quale appartiene, un tentativo inefficace per adattarsi ad una situazione problematica. Non è quindi il bambino ad avere qualcosa che non va ma.
Se, infatti, è necessario riconoscere, comprendere e gestire il disagio, «prima di psichiatrizzare una generazione di figli, il buon senso dice di verificare se i basilari educativi sono presenti o se viceversa la confusione pesagogica negli adulti crea scompensi nei più piccoli» sostiene Daniele Novara, pedagogista e direttore del Centro Psicopedagogico per l'educazione e la gestione dei conflitti che parla di questo tema nel libro “Non è colpa dei bambini” (edizioni Bur). Prima di coinvolgere i più piccoli in un qualsiasi tipo di trattamento, meglio chiedersi se il disagio non può essere risolto con una genitorialità più sensata evitando l'eccesso di medicalizzazione psichiatrica di bambini e ragazzi. «È importante saper mettere in dubbio che il difetto possa essere anche in chi educa, non esclusivamente in chi è educato» afferma il pedagogista.
Il significato del disagio
Se ci basiamo sui dati relativi all'uso di psicofarmaci nei bambini e negli adolescenti, al diffondersi dei cosiddetti disturbi di apprendimento – moltiplicati negli ultimi anni -, dei BES (bisogni educativi speciali), delle certificazioni di disabilità, dei disturbi dell'alimentazione, di certe forme di dipendenza, dei casi di bullismo, c'è molto di cui preoccuparsi. Sembra che i più piccoli siano sempre più fragili e che il disagio stia aumentando in forme diverse. I numeri dicono che i più piccoli sono in crisi e che noi adulti dovremmo rispondere.
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Ma allargando la lente, cercando di evitare di concentrarsi solo sul problema, il disagio può essere visto come una conseguenza “normale” per sopravvivere ad ambienti eccessivamente stressanti, richiedenti, omologanti, instabili. Una risposta “adattiva” a situazioni “disturbanti”. Allora, in quest'ottica, non dovremmo chiedere ai bambini di adattarsi al caos che li circonda, proponendo loro soluzioni terapeutiche e farmacologiche facendoli diventare casi da guarire, piuttosto tentare di modificare ciò che sta loro intorno, intervenendo sui sistemi nei quali sono inseriti – famiglia, scuola, comunità -. Per primo, garantire loro relazioni e ambienti sicuri e stimolanti dai quali attingere risorse sane, assicurare una vita infantile naturale fatta di gioco, attività all'aria aperta, movimento, natura, socialità, spontaneità. Insomma, prendersi cura dei bambini con un'educazione coerente ed efficace, abbandonando l'idea che ciò che non si comprende, disturba o è diverso debba essere curato. Sono i nostri modi di relazionarci ai figli e gli ambienti che proponiamo loro, eventualmente, a dover essere rivisti. In molti casi siamo noi genitori a dover chiedere aiuto.
DI BRUNELLA GASPERINI, PSICOLOGA
10 Settembre 2018
Fonte: Repubblica